Il voto plurimo in assemblea: gli effetti in Italia

di Paolo Clementi - - Commenta

Negli ultimi mesi, dopo il trasferimento della sede legale della F.C.A. (Fiat Crhysler Automobiles) in Olanda, si è aperto un dibattito molto acceso sulla possibilità di introdurre il voto plurimo in Italia. In pillole, tale norma olandese permette al socio di controllo di una società, con sede legale nel territorio nazionale, di scegliere quanti voti assegnare alle proprie azioni in assemblea dei soci, fino ad un massimo determinato dalla legge stessa. Vien da se che l’azionista di maggioranza si vedrà riconoscere un voto “x” volte più pesante rispetto agli altri soci, mantenendo nei limiti sia la maggioranza assoluta sia quella relativa. Al di là delle speculazioni giornalistiche, tale previsione permetterebbe comunque alle società italiane, conosciute al mondo come aziende prettamente familiari, di aprirsi a capitali di rischio esterni alla famiglia, pur mantenendo il controllo sulla stessa.

La crescita della Borsa, nonché l’ingresso di capitali stranieri nelle PMI italiane, sono stati argomenti più volte affrontati in Italia; in effetti, negli anni scorsi, sono state introdotte normative con l’obiettivo di aumentare l’appeal della quotazione in borsa delle piccole e medie imprese italiane senza, aimè, un tangibile risultato.

Con il Decreto Legge 91/2014, convertito in Legge 116/2014 sono state inserite delle novità con l’obiettivo di facilitare la quotazione in Borsa e, allo stesso tempo, aprirsi al capitale di rischio senza passare per la quotazione. La novità più importante è sicuramente l’introduzione del voto plurimo, attraverso la modifica dell’art. 2531 c.1 del Codice Civile.

Il voto plurimo in Italia

L’art. 2531 del Codice Civile dopo l’introduzione delle novità prevede che nello Statuto delle società possono essere previste categorie di azioni a voto plurimo, fino ad un massimo di tre voti. Tale aspetto però è applicabile solo nelle società non quotate. In effetti, con l’art. 127 sexies del T.U.F. viene sancito il divieto per le società già quotate, in deroga al precedente articolo, di costituire categorie di azioni a voto plurimo. Il beneficio principale di tale novità è che l’eventuale fondatore della società, con una partecipazione al capitale sociale pari al 30% potrà portare in assemblea un massimo di 90 voti su 160 totali, cioè un 56,25% di voti in assemblea.

Per le motivazioni sopra esposte, a parere dello scrivente, il voto plurimo potrebbe essere un elemento da sfruttare per le piccole medie imprese italiane, in quanto gli imprenditori non dovranno più avere il timore di far entrare soci esterni, visto che il loro controllo rimarrebbe inalterato. Allo stesso tempo, potrebbe indirizzare le società verso un finanziamento da fondi di Private Equity, rispetto al classico e sterile finanziamento bancario. In effetti, tali fondi investono in partecipazioni di minoranza nel medio lungo periodo, con l’obiettivo di introdurre liquidità, capacità manageriali, know how internazionale, nonché l’obiettivo finale di guadagnare sull’eventuale capital gain in caso di successiva quotazione. Per la società questo aspetto potrebbe portare maggiori benefici rispetto al credito bancario, in quanto oltre alle liquidità necessarie per la crescita interna, con tali strumenti verrebbero introdotti anche quei know how indispensabili nella fase espansiva di qualsivoglia azienda.

Il voto plurimo, di rovescio, potrebbe accentuare ancora di più quelle attività capitalistiche in cui una stretta cerchia di soggetti controllano gruppi societari, o aziende importanti pur avendo investito un capitale proprio limitato (…)

tratto da “La circolare del revisore n. 5 – Maggio 2015″

Autore dell'articolo

Paolo Clementi

Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti in Macerata, componente della Commissione Studi di Diritto Tributario presso l'O.D.C.E.C. di Macerata, è componente delle commissioni di Diritto Societario e Diritto Tributario UNGDCEC

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