La cassazione, mediante la sentenza n. 4737, del 26 febbraio 2010, ha fissato un paletto di rilevante interesse professionale, con riguardo al rapporto sussistente tra l’abuso del diritto nell’ambito tributario e lo strumento probatorio caratterizzato dalla relazione di revisione.
Si ricorda che l’abuso del diritto costituisce un principio generale antielusivo che preclude al contribuente l’ottenimento di vantaggi fiscali mediante l’uso distorto di norme attraverso un comportamento che si pone l’unico obiettivo del risparmio fiscale, violando i principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione (Cass. 3055/2008 e Cass. SS.UU. 15029/2009).
L’abuso del diritto in ambito tributario trova attualmente riscontro nella disciplina contenuta nell’art. 37 bis, D.P.R. n. 600/1973, anche se la cassazione ritiene che detto principio fosse insito nell’ordinamento anche anteriormente all’entrata in vigore della suddetta norma (si veda fra tutte, Cass., 25374/2008, 21221/2006 e 20398/2005).
Di contro, la relazione di revisione si caratterizza per la presenza di forti connotati probatori derivanti dal controllo pubblicistico e dalla responsabilità civile e penale del revisore (Cass., 4737/2010).
Di conseguenza per provare l’abuso del diritto in ambito tributario, in presenza di una relazione di revisione, l’ufficio tributario ed il giudice devono pronunciarsi in merito, svuotando la relazione della sua forza dimostrativa, fornendo una prova contraria dei fatti.
La cassazione, nella citata sentenza, individua tre tipologie di documenti atte a fornire la prova de qua:
a) documenti che dimostrano il comportamento omissivo del revisore;
b) documenti che, seppur rilevanti, non sono stati presi in considerazione dal revisore in quanto non ne era previsto l’inserimento nelle procedure di revisione;
c) documenti occultati, perché idonei a provare comportamenti dolosi.